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Il capitalismo: l’irrazionale iper-razionalismo.

  • Writer: Sophia Giacchi
    Sophia Giacchi
  • Jan 24, 2019
  • 11 min read

Partendo da un excursus storico che affonda le sue radici in tempi abbastanza remoti rispetto al nostro, sembra oggi inappropriata qualsiasi domanda circa la natura del capitalismo, la sua supposta necessità e inevitabilità d’affermazione.

Proprio l’attuale difficoltà a rintracciare il senso d’inizio, o l’inizio di senso di quello che adesso vediamo come “evento” storico (nel senso di adventus, ossia qualcosa che è accaduto perché doveva accadere) è un effetto del nostro abitare una società profondamente capitalistica.

L’essere immessi in una realtà già data è motivo d’ostacolo per una visuale scevra da pregiudizi storici; per cui risulta ostico poter vedere la nascita di qualcosa che per noi è già sempre nato.

Eppure, non è da sempre esistito il capitalismo così come lo intendiamo, “moderno”, basato sui concetti chiave di surplus e organizzazione razionale del lavoro (formalmente) libero.

Seguendo il pensiero di Max Weber si rintraccia storicamente una relazione del tutto peculiare tra lo spirito del capitalismo e l’etica protestante: statisticamente è stato dimostrato che nei paesi dove inizialmente sorgeva la forma capitalistica dell’economia, lì vi era una netta maggioranza di fede protestante. L’evidente maggiore partecipazione dei protestanti alla proprietà capitalistica e alle posizioni di direzione, diversamente dai cattolici che dedicavano maggiormente i loro studi a discipline umanistiche e improntavano la loro vita lavorativa all’artigianato, è una spia d’allarme che indirizza la ricerca della nascita del capitalismo nella profonda differenza tra le confessioni, e particolarmente nel carattere spirituale peculiare del protestantesimo. Questa relazione, lungi dall’essere una banale reazione ad un presunto alleggerimento dell’apparato teologico protestante rispetto a quello cattolico, è invece il motivo fondante del capitalismo. È scorretto, e troppo semplicistico, pensare l’uno come genesi dell’altro; a legarli è invece un processo di decadenza, di rovina. Il capitalismo è infatti il residuo cieco di una dottrina religiosa come il Calvinismo; risultante da un progressivo smorzamento dell’adamantina logica Calvinista ad opera dei suoi epigoni. Ma questo è uno dei rischi dell’esistenza: il non essere all’altezza delle proprie possibilità.

Il calvinismo è una confessione del cristianesimo protestante sorta nel XVI secoloche si differenzia dal cattolicesimo ma anche dal luteranesimo per alcune particolari visioni dottrinali.

Il dogma più caratteristico, e più influente poi sul piano economico, è la dottrina della predestinazione degli eletti e l’ottenimento della salvezza per merito della sola fede. Si legge nella confessione di Westminster che l’uomo è considerato già da sempre deviato dal bene e morto nel peccato, tanto che nessuna sua azione potrebbe mai convertirlo. Le opere “buone” non sono più per il fedele un’opportunità per raggiungere la salvezza attraverso la “collezione” di queste; non sono più espiazione dal peccato come penitenza. Dio con il suo disegno supremo, prima ancora che il mondo sorgesse, ha eletto i salvi e condannato gli altri alla morte eterna. E tutto questo non per amore o utilità dell’uomo, ma solo per la sua maggiore glorificazione. Dio infatti, non è in funzione degli uomini, ma gli uomini esistono in sua funzione e ogni loro azione, oltre ad essere volta all’accrescimento della gloria divina, non può logicamente condizionare l’arcano decreto di dio, altrimenti ne varrebbe della sua onnipotenza.

L’esasperazione dell'incommensurabilità tra dio e uomo mette da parte ogni componente sentimentale della religione tanto che la fede di calvino è una fede escogitata più che vissuta e sentita; il suo Dio è un Dio logico, risultato di un puro razionalismo.

Ma proprio questo estremo razionalismo è irrazionale, inumano.

La risultante di questa impeccabile dottrina è, infatti, un inaudito isolamento interiore dell’individuo.

L’eterna beatitudine, unico interesse esistenziale per l’uomo, esclude infatti l’individuo dalla società dal momento che nessun’uomo può aiutarne un altro al suo raggiungimento. L’uomo dunque è in balia di sé stesso e del suo destino, niente e nessuno può salvarlo se non Dio.

Questa apparente limitazione della libertà del cristiano è invece, in Calvino, fonte di una sconfinata libertà. Se infatti l’uomo, non essendo capace di scrutare il volere divino, non può sapere qualcosa circa la sua salvezza, allora deve fare a meno di interrogarsi cercando risposte inottenibili. Porsi il problema della salvezza significherebbe voler superare i propri limiti da uomo ed ergersi sull’altopiano della visuale di Dio, divinizzando in questo modo la creatura.

Una religione così disincantata, che eliminava ogni sacramento, che respingeva qualsiasi mezzo magico per ottenere la salvezza, si rifletteva su una psicologia individuale profondamente angosciata.

L’esclusiva fede in Dio portava l’uomo a non fidarsi dell’uomo, così che il sacramento della confessione non trovava più spazio e il senso di colpa che affliggeva le coscienze degli uomini non poteva più essere rilassato periodicamente.

Il peso di questo ferreo credo non fu facilmente sopportato dagli epigoni che invece ricercarono, per placare quell’angoscia esistenziale, alcuni segni dello stato di salvezza dando inizio a quel processo di decadenza, chiamato in tedesco: Verfall.

È in questo contesto che trova la sua piena realizzazione il concetto di “beruf” coniato da Lutero. Infatti, per scacciare da sé l’angoscia che la religione aveva posto sul suo capo con tutto il suo peso, l’uomo praticava il lavoro professionale indefesso e sistematico come mezzo tecnico per raggiungere quella sicurezza di sé ricercata. Il lavoro perdeva adesso ogni tradizionale relazione con la soddisfazione dei bisogni relativi alla vita nel mondo, ogni collegamento alla punizione, alla fatica e al sacrificio. Adesso l’adempimento del proprio dovere nell’ambito delle professioni mondane diventava la suprema realizzazione della propria persona morale.

Dio operava attraverso gli uomini che diventavano così strumento della potenza divina, l’agire era ora un agire ascetico.

Ma questo agire, per poter essere garanzia della salvezza, doveva essere un “effectual calling”, ossia la fede doveva essere confermata e comprovata nei suoi effetti e non nell’intento, poiché quest’ultimo scaturisce anche dai più elevati sentimenti che però sono spesso

ingannevoli.

L’opera buona non era più dunque una singola azione eseguita con l’intenzione di redimere un peccato, ma doveva essere un’attitudine alla vita, una sistematica e metodica santità di opere eretta a sistema. Sottrarre l’intenzionalità all’uomo e proibirgli di peccare eliminando ogni rituale “magico” per la redenzione significava però smettere di riconoscere all’uomo l’esser uomo.

Nasceva così la necessità di un autocontrollo sistematico di questa santità d’opera eretta a sistema, per poter esser sicuri di starsi elevando dallo “status naturae” allo “status gratiae”.

Ma in questo elevarsi si sottraeva sempre più l’uomo a sé stesso, ai suoi impulsi irrazionali, alla sua natura, per sottoporlo invece ad un costante autocontrollo del suo agire. Si imponeva così una razionalizzazione irrazionale della vita dell’uomo, connotata come ascesi intramondana.

In questa realtà, venuta meno la distinzione tra consilia e praecepta, il monaco era monaco all’interno della società, e ciò esasperando un isolamento che sfociava in un’accesa competitività tra uomo e uomo. E poiché non c’era modo per distinguere esteriormente un eletto da un condannato, si andava affermando il sentimento di meritocrazia che puntava a discriminare e allontanare dalla comunità coloro che non raggiungevano il successo professionale, sotto la convinzione che la non vittoria sulla concorrenza fosse un chiaro segno di condanna divina.

L’uomo così passò dal controllare il suo proprio agire, al controllare anche quello divino. Attraverso, dunque, il principio della comprova, la santificazione della vita assumeva sempre più i caratteri di un’azienda, di una fabbrica. L’uomo era allo stesso tempo il capitalista di sé stesso proletario, era l’altro da sé.

Se infatti nessun secondo di tempo poteva esser perso, ma doveva essere impegnato nel lavoro sistematico, lo stesso secondo per poter dirsi così impiegato doveva essere controllato, comprovato. Il tempo acquisiva così una continuità ininterrompibile.

Perdere anche un solo secondo significava sottrarlo alla maggiore gloria di Dio, all’esercizio indefesso volto al guadagno. Ma solo una vita guidata da una riflessione costante poteva essere considerata come superamento dello “status naturalis”, dunque il cogito ergo sum cartesiano fu adottato dai puritani come reinterpretazione razionale della vita ascetica. Descartes infatti scorge che l’essenza è profondamente legata al pensiero, ma non nel senso fuorviante di un rapporto consequenziale, piuttosto in un rapporto di contemporaneità, coesistenza. Allora dal momento che essere significa prima di ogni altra cosa voler essere nel continuo, bisogna pensare, cogitare in continuo. Un’interruzione del cogito dunque equivarrebbe ad un vuoto d’esistenza. Questo scorgimento, alla luce del nuovo senso d’essere puritano, quello della devozione a Dio e alla sua gloria è l’elemento costitutivo della concezione di tempo come sopra inteso.

In questo panorama l’espediente del calcolo è l’elemento essenziale per la razionalizzazione, o meglio, per l’”aziendazione”della vita.

Si noti dunque come è breve il passo tra questa interpretazione di tempo e la famosa massima di Benjamin Franklin, l’autore dei precetti in cui Weber vede pulsare lo spirito del capitalismo, “Il tempo è denaro”. Tratto originario e caratteristico della morale di questa massima è che il movente del guadagno è, e deve essere, separato da ogni motivazione utilitaria, edonistica o eudemonistica. Non il piacere, ma il dovere orienta e motiva la ricerca del profitto. Lo spirito del capitalismo è infatti un’etica proprio perché il perseguimento dello scopo viene ostentatamente spogliato di qualsiasi giustificazione in termini di razionalità rispetto a finalità edonistico-eudemonistiche. L’aspirazione al profitto appare non soltanto estranea a qualsiasi ricerca del piacere o della felicità, ma risulta addirittura, come ogni condotta etica, con essa confliggente.

L’ascesi intramondana chiedeva infatti un lavoro slegato dal prodotto in sé e per sé, che guardava solo all’accrescimento della gloria di dio, all’accumulazione di effetti e al mantenimento costante dell’esercizio. In questo modo si negava un fine al lavoro e nel contempo una fine al lavoro, non potendo così mai più raggiungere l’abbastanza. Allora non si moriva più vecchi e sazi della vita, come i contadini di altri tempi; E le sere della giornata non concedevano più la pace di chi non aveva misteri da risolvere e poteva considerarsi abbastanzasoddisfatto.

“Invece un uomo collocato all'interno di questa cultura può ritrovarsi stanco di vivere ma per nulla appagato, ciò perché egli riesce a carpire solo una minima parte di quello che la vita dello spirito produce di sempre nuovo, e sempre qualcosa di provvisorio e non definitivo: è cosi che per lui la morte è un evento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso lo è anche il procedere della civilizzazione in sé, in quanto appunto, grazie al suo inane “progresso cumulativo”, rende la morte un accadimento privo di senso.”

[Max weber, scienza come professione. 1917]

La mancanza di senso sottolineata in questo passo dell’opera di Weber è il tratto costitutivo di quell’epoca che a partire dal puritanesimo, con la rivoluzione industriale poi, chiamiamo “moderna”. La modernità si stanzia nello iato tra razionalità e senso, ad un progressivo accrescimento delle capacità tecniche segue un irrimediabile affievolimento della conoscenza dell’essenza. Lì dove il calcolo si sostituisce ai sensi l’umanità si ammala di nevrosi. Si ripetono infatti, senza capirne il nesso logico, delle azioni prestabilite anche quando non c’è nessun presupposto che le richieda.

E non è forse il capitalismo uno spasmo nevrotico dell’etica protestante? Quando rimane la forma ma sparisce lo spirito, il tutto si riduce ad un’ossessiva ripetizione che non richiede coscienza.

Il cosmo creato a partire dall’etica protestante è dunque estremamente ordinato ma va avanti inconsapevole, a forza di inerzia.

La concezione dello stato di grazia non raggiungibile attraverso mezzi magico-sacramentali legata all’idea puritana di beruf coniò quell’impulso al controllo metodico e alla conformazione razionale

della vita. Ma mentre l’uomo cercava instancabilmente Dio conseguiva un’inaudita ricchezza determinata solo e soltanto dal rispetto corretto dell’etica religiosa sin qui descritta: lavoro indefesso senza distrazioni che comportano perdite di tempo e guadagno.

La ricchezza in sé, se ottenuta coscienziosamente, non era ritenuta incresciosa; era invece fonte di peccato il godimento spensierato dell’esistenza e dei piaceri che può offrire. Da qui derivava la condanna puritana al teatro, allo sport, e ad ogni tipo di svago. Il rifiuto di queste attività aveva un unico e chiaro senso: il puritano non era avverso a priori al piacere, era piuttosto contrario alla mancanza di utilità, provava costantemente quell’horror vacui che odorava di condanna divina. Ma un popolo servile a Dio, obbediente solo alle rigorose leggi morali, era un popolo difficilmente ammaestrabile da poteri mondani, da monarchie. È per questo che in Inghilterra, dove il calvinismo era fortemente sentito, la situazione capitolò nel conflitto tra i protestanti e i re Giacomo I e Carlo I per il “Book of sports” elevato a legge con il chiaro intento di combattere la confessione. Ciò che temeva il potere monarchico era l’aria antiautoritaria che emanava la nuova chiesa.

Un apparato di cose così fatto innescava una formazione di capitale condizionata da una coazione ascetica al risparmio. Il profitto realizzato, seguendo questa logica, doveva necessariamente essere produttivo, ossia investito. Ma gli ideali puritani vennero messi a dura prova dalle crescenti tentazioni della ricchezza.

Scrive John Wesley:

“Dovunque si è moltiplicata la ricchezza, il contenuto della religione si è impoverito in uguale misura. […] La religione deve necessariamente ingenerare sia laboriosità (industry) che parsimonia (frugality), e queste non possono produrre altro che ricchezza. Ma se la ricchezza aumenta, aumentano orgoglio, passione, e amore del mondo in tutte le sue forme.”

L’abbondanza di beni materiali anestetizzava la coscienza religiosa, così quando l’anelito al regno di Dio si dissolveva nella fredda virtù professionale, l’albero rigoglioso dell’ethos puritano si ritrovava spogliato dal vento dell’inconsapevolezza dovuta alla metodicità e inaridito in ethos borghese. A furia di cristianizzare il popolo si diede vita, paradossalmente, al capitalismo. La posizione del ricco acquistava adesso tutta la sua dignità, se infatti si segue il pensiero Weberiano è facile riconoscere come l’arricchimento capitalistico nulla abbia a che fare con l’avidità di guadagno o il furto a spese altrui. La concorrenza è giustificata e l’aver vinto contro un competitor non è motivo di vergogna, ma di orgoglio. Le sperequazioni sociali vengono assunte come frutto della volontà giusta di Dio, che può semplicemente sembrare ingiusta agli occhi miopi dell’uomo. La povertà non è più compatita perché vista come rifiuto dell’uomo di voler accrescere la gloria divina; anzi, il povero è inteso semplicemente come riflesso della vittoria del primo, e lo stato di bisogno come segno di una selezione avvenuta a suo scapito. Questo darwinismo sociale è imperniato sulla teoria della produttività dei bassi salari e fa leva sulla specializzazione del lavoro. Già calvino aveva affermato che il popolo rimane ubbidiente a Dio solo se mantenuto in condizioni di povertà, poi anche gli olandesi sostenevano che gli uomini lavoravano solo sotto necessità.

Il movente originario religioso venne in tutto e per tutto insensibilmente sostituito da un pensiero utilitaristico che permeò interamente lo spirito del capitalismo. Così l’ascesi fu la forza che volle sempre il bene ed ottenne sempre il male. Ma se per i puritani essere capitalisti fu una scelta, per noi “ultimi uomini” è la realtà delle cose.

“Il puritano volle essere un professionista, noi lo dobbiamo essere. Infatti quando l'ascesi passò dalle celle conventuali alla vita professionale e cominciò a dominare sull'eticità mondana, contribuì, per parte sua, a edificare quel possente cosmo dell'ordine dell'economia moderna ‒ legato ai presupposti tecnici ed economici della produzione meccanica ‒ che oggi determina, con una forza coattiva invincibile, lo stile di vita di tutti gli individui che sono nati entro questo grande ingranaggio e forse continuerà a farlo finché non sia stato bruciato l'ultimo quintale di carbon fossile [...] Solo come "un leggero mantello che si potrebbe sempre deporre", la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli eletti [...] Ma il destino ha voluto che il mantello si trasformasse in una gabbia di durissimo acciaio [...] da cui lo spirito è fuggito. In ogni caso il capitalismo vittorioso non ha più bisogno di questo sostegno, da quando poggia su una base meccanica [...] e la ricerca del profitto si è spogliata del suo senso etico-religioso, e oggi tende ad associarsi con passioni puramente agonali, competitive [...] Nessuno sa ancora chi in futuro abiterà in quella gabbia, e se alla fine di tale sviluppo immane ci saranno profezie nuovissime una possente rinascita di antichi pensieri o se invece(qualora non accadesse nessuna di queste due cose) avrà luogo una sorta di pietrificazione meccanizzata, adorna di una specie di importanza convulsamente, spasmodicamente auto-attribuitasi. Poiché, invero, per gli "ultimi uomini" dello svolgimento di questa civiltà potrebbero diventare vere le parole: "Specialisti senza spirito, edonisti senza cuore; questo nulla s’immagina di essere asceso a un grado di umanità mai prima raggiunto”.

Siamo noi gli abitanti della grande gabbia d’acciaio, noi umanità efficiente e non più bella. Ognuno di noi è ormai soltanto una scheggia nel mondo e non più un barlume di luce. Abbiamo guadagnato efficienza, ma abbiamo perso il senso.

Non sappiamo più cosa facciamo perché ci basta sapere che quello che facciamo funziona. Ma ciò che un tempo fu scelto, ora è una base di selezione sociale eretta sul principio dell’efficienza.

E proprio l’uomo è l’elemento meno efficiente di tutto il sistema che egli stesso ha creato, è un elemento di disturbo con i suoi errori e le sue imperfezioni. Si procede oggi nella una continua robotizzazione dell’uomo, e parallelamente nell’umanizzazione del robot. Quale sarà il risultato? Potrebbe l’uomo-robot diventare lo specialista senza spirito e il robot-uomo l’edonista senza cuore? O forse è già così? E soprattutto: quale sarà (o, qual è) la differenza tra i due enti così forgiati? Enti, e non essenti perché l’essenza si è già smarrita con l’avvento dell’efficienza.

Così l’iper-razionalizzazione della vita dell’uomo si rivela irrazionale ogni giorno, quando per poter funzionare chiede all’uomo di non esser uomo.

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