Il processo di affermazione dell’io
- Sophia Giacchi
- May 4, 2018
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[Fase uno]
La mortificazione che ne consegue a causa della banalità del reale L’io, rappresenta una struttura psichica deputata al contatto ed ai rapporti con la realtà, sia interna che esterna. Esso organizza e gestisce gli stimoli, le relazioni oggettuali ed è il principale mediatore della consapevolezza. E’ la struttura che percepisce se stessa ed entra in relazione con altre persone, distinguendole come "non-Io". Proprio in questa differenziazione consiste l’affermazione della propria individualità, nonché l’affermazione dell’autenticità del nostro io come prova della nostra esistenza. Ma in un mondo flagellato da difficoltà sociali, economiche; deturpato dalla malattia, dalla guerra, dalla corruttibilità delle cose; annerito dalla degradazione morale, quanto può affermarsi il nostro io? Forse la debolezza non infiacchisce la volontà? Non ci livella tutti verso il degrado, l’incapacità, l’inettitudine? L’io viene mortificato dalle brutture della vita, dalla banalità del reale che disincanta e abbrutisce la magia dell’essere.Una delle figure più illustri della storia della letteratura, in particolare della mitologia greca che assurge secondo me a simbolo supremo di questa mortificazione dell’essere della quale cerco di parlarvi è Medea. Medea è figlia di Eeta, re della Colchide, fanciulla benestante e dotata di uno charme impareggiabile dovuto alla sua bellezza e ai suoi poteri magici, ereditati dalla nonna, la maga Circe. Sappiamo come di un mito diverse sono le versioni, diversi i punti di vista ed i dettagli che gli autori di volta in volta scelgono di trattare. Approfondirò la versione di Euripide, tragediografo greco del V secolo a.C.Medea si innamora follemente di Giasone, condottiero della flotta degli argonauti giunto in Colchide alla ricerca del vello d’oro. In preda a questa follia amorosa Medea vince il dissidio tra aidos (pudore) e imeros (desiderio), ovvero tra fedeltà alla famiglia e allo schema educativo impartitole, e la travolgente passione per lo sconosciuto venuto da lontano. Il dissidio si risolve nella decisione, a lungo sofferta e contaminata dall’idea del suicidio, di seguire l’amore e di abbandonare tutte le sue certezze. Durante la fuga Medea si rende complice di un atto criminoso contro il fratello che cerca di inseguirla per le vie del mare. Medea e Giasone lo uccidono e seminano i brandelli del suo corpo lungo la scia delle onde. La tragedia euripidea comincia la sua narrazione quando dopo dieci anni dagli eventi descritti, Giasone nella prospettiva di un miglioramento della sua posizione sociale decide di lasciare Medea e i due figli da lei avuti per sposare Glauce, figlia del re di Corinto, dove allora abitavano. Medea si sente frustrata nella sua sessualità, ordisce la vendetta, ha orrore dell’isolamento, smania di affermare la propria personalità superiore, consapevole della sua forza intellettuale, interpreta profondamente il senso della giustizia violata. Il tutto genera un’ansia disperata che la induce al progetto fatale: per vendicarsi dell’uomo annienterà ciò che ha di più bello: i suoi figli, ferendo a morte la sua maternità. Medea allora, tradita nell’animo, spodestata dalle certezze che si era ricreata medita la vendetta, uccide grazie alle sue arti magiche la rivale in amore tramite un peplo donatole intriso di veleno. Creonte, accorso a soccorrere la figlia, toccando la stoffa avvelenata muore insieme a lei. Ma Medea continua, quasi accecata da questa brama di vendetta, nelle uccisioni. Stavolta sono i figli ad essere trafitti con la spada dalle mani materne. Si tratta di un autentico progetto di autodistruzione.
Abbiamo visto in Medea cosa ha prodotto la continua ed inappagabile ricerca dell’uomo della propria dimensione, della felicità che nel contempo è fonte di perenne inquietudine e di sofferenza. Questo senso di insoddisfazione sfocia, come possiamo vedere in altri autori, nella noia, un sentimento astratto, che può essere provato all’interno della psiche individuale come vago senso di “apatia” e di distacco nei confronti del mondo e delle cose. Il tema del taedium vitae, della noia e del disgusto che affliggono chi vive un'esistenza che gli appare vuota di significato, era stato svolto magistralmente da Lucrezio nel finale del libro III del De rerum natura:
“ognuno non sa quel che si voglia e cerca sempre di mutar luogo, quasi potesse deporre il suo peso […] Così ciascuno fugge sé stesso, ma, a quel suo 'io', naturalmente, come accade, non potendo sfuggire, malvolentieri gli resta attaccato, e lo odia, perché è malato e non comprende la causa del male;
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