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Il processo di affermazione dell’io

  • Writer: Sophia Giacchi
    Sophia Giacchi
  • May 4, 2018
  • 2 min read

[fase due]

Dal rifugio nell’arte alla collettività. La poesia, l’arte sono il rifugio dell’io, che dopo non aver trovato la sua dimensione nella realtà si apparta in una dimensione colorata dalla fantasia in cui tutto sembra acquisire i toni della perfezione, dell’idilliaco, del sublime. Tutti cerchiamo la poesia nella nostra vita, ma pochi riescono ad affermarsi tramite questa, a trovare la propria dimensione nell’arte. Forse che questo non implica una scissione quasi netta dalla realtà, e dunque dalla società circostante? Quanti riescono ad essere completamente se stessi? I casi più conosciuti sono quasi sempre esempi riconducibili al noto binomio genio-sregolatezza, ma nella vita ordinaria il rifugio che l’io trova nell’arte è transitorio, la contemplazione disinteressata e l’estasi che ne deriva coinvolgono l’animo per un lasso di tempo breve, che lascia spazio ad un nuovo ritorno dell’io nella quotidianità e alle delusioni.

Allora una più pregnante affermazione è quella che si realizza nel gruppo sociale, nella collettività. L’io si riconosce negli io molteplici degli altri e vi si identifica, potenziando se stesso e la propria coscienza di esistere. Ma ciò ha un’ambivalenza non trascurabile. Da un lato l’individualità dell’io soccombe alla moltitudine, l’estro e il genio vengono livellati verso il basso, verso una conformità che da “sicurezza”. E’ proprio in questo che sta l’affermazione dell’identità di massa, l’io generico si sente affermato nel momento in cui è parte integrante, ed integrata, di un contesto sociale codificato da precisi schemi. Ma tutto questo ha una sorta di effetto paralisi, ognuno è ingabbiato in ruoli e posizioni fisse, incatenato da valori creati ad hoc che confluiscono in un falso moralismo schiacciante. L’originalità si perde e l’io diventa massa. Interessante a tal proposito è la riflessione della filosofa ebrea Hanna Arendt nella sua opera “la banalità del male” in cui l’autrice racconta e commenta il processo ad Adolf Eichmnann, ufficiale delle SS responsabile della gestione e dei trasferimenti degli ebrei, in un primo tempo espulsi dai paesi annessi al reich come l’Austria e poi ammassati nei ghetti e quindi rinchiusi nei campi di concentramento per procedere alla “soluzione finale”. Tale processo si tenne a Gerusalemme nel 1961 e si concluse con la condanna a morte dell’imputato. Arendt sottopone ad analisi accurata le dichiarazioni, le azioni, e le motivazioni di Eichmann, il comportamento dei nazisti e le loro vittime. I carnefici nazisti erano uomini normali nella vita privata, anzi uomini “banali” che avevano rinunciato a pensare autonomamente e si erano trasformati in precisi e puntigliosi esecutori di ordini superiori. D'altra parte, e ultima tappa del lungo viaggio dell’anima, la collettività si stanzia come affermazione dell'essenza delle animenella solidarietà verso gli altri, momento in cui la frammentarietà angosciosa dei tanti io doloranti si armonizza in una “social catena”. In questa prospettiva è assolutamente fondamentale l'amicizia, concepita in modo aristotelico, come un istinto primario che spinge l'uomo ad allearsi con gli altri uomini non tanto e non principalmente per un rapporto di reciproca utilità, quanto proprio per un senso di "orrore" nei confronti della Natura di cui tutti gli esseri viventi sono vittime, per ricavarne reciproco conforto e vincere così in qualche modo la devastante solitudine che ci attanaglia.

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