Supplici agli altari della vita.
- Sophia Giacchi
- Jan 18, 2019
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Le supplici è considerato il dramma più antico del corpus delle tragedie eschilee. Pare sia stato rappresentato attorno al 463 a.C insieme alle altre due tragedie che completano la trilogia tragica: Gli egizi e Le danaidi, e al dramma satiresco Amimone. Questo ciclo di rappresentazioni portava in scena il mito delle Danaidi, a noi è pervenuta solo la prima tragedia, Le supplici, in cui le cinquanta fanciulle, figlie del re Danao, fuggono le nozze con i loro cugini, i cinquanta figli di Egitto, e aiutate dalla guida paterna si rifugiano ad Argo, città in cui ha avuto origine la loro stirpe. L'origine del rifiuto coniugale è ancora motivo di discussione e di interesse per numerosi critici. Questo probabilmente nasce dal vaticinio di un oracolo che prediceva la morte di Danao per mano di un nipote, o forse la consapevolezza della subordinazione muliebre, ancora oggi perpetrata, spingeva le Danaidi alla veemente ribellione. Le cinquanta vergini, recatesi al recinto sacro della città supplicano il re Pelasgo di accoglierle nella sua terra e di difenderle dalla prepotenza dei cugini. Il re, interprete dell'Ἀμηχανία infusa da Eschilo nei suoi personaggi, si trova impotente a dover scegliere tra due possibilità, entrambe rovinose. Prestare aiuto alle fanciulle significherebbe, infatti, andare incontro ad un conflitto contro gli Egizi che le reclamano: si tratterebbe di una guerra non voluta, da combattere non nell’interesse della città, ma per difendere delle donne straniere. D’altra parte, però, negare loro il soccorso richiesto costituirebbe una violazione della loro sacralità di supplici, causando la terribile collera di Zeus ἱκέσιος. Pelasgo, non avendo le supplici chiesto aiuto al focolare della sua casa ma al sacro focolare comune, si spoglia dei poteri assoluti da monarca e chiede il consiglio dell'assemblea. Il popolo decide di accogliere le fanciulle e poco dopo si verifica ciò per cui si era temuto ed indugiato: Un messo d'Egitto giunge in terra greca per richiedere la restituzione delle donne, e avendo ottenuto un rifiuto si allontana minacciando guerra.
In questa tragedia Eschilo sviscera la relazione tra giustizia ed agire umano, tra giustizia terrena, dialettica: Dike, e giustizia divina, naturale: Themis. Se da una parte le Danaidi, rifitando il vincolo nuziale, infrangono una norma naturale sancita da Themis: quella del matrimonio; dall'altra sono forti della Dike, la giustizia degli uomini, in quanto oltraggiate e sottoposte alla costrizione violenta. A seconda del punto di vista le Danaidi e gli Egizi possono essere considerati colpevoli di aver trasgredito la legge divina: le une sottraendosi al matrimonio, gli altri violando l'intoccabilità delle donne come supplici presso gli altari degli dei. Coloro che sopravvengono alle norme di Themis, oltrepassando i limiti della loro essenza umana, si macchiano di ὕβϱις. Tracotanti sono dunque gli egizi, ma anche le vergini nella loro richiesta d'asilo. Queste, lungi dall'assumere toni imploranti e umili, rivolgono parole sicure e caparbie a Pelesgo. Forti infatti del diritto d'asilo assicurato al supplice dal corpus normativo greco, le Danaidi quasi ricordano minacciose il dovere morale che questo ha nei loro confronti. Le vergini qualora il re non accettasse la loro supplica si impiccherebbero alle statue degli dei provocando contro Argo l'ira funesta degli dei, la Nέμεσις che nasce come vendetta e punizione divina. Quest’ultima aleggia con tutta la sua pesantezza permeando l’intera tragedia, è la grande assente che si risente nel dubbio del re, nella minaccia delle donne, nell’antica vendetta di Era contro Io, la progenitrice delle Danaidi e ancora nella morte che troveranno –secondo il mito- gli egizi quando, vinte con la forza le resistenze delle donne, giaceranno con loro per la prima notte di nozze. Il dramma trova tutta la sua espressione nell'indecisione di Pelasgo che tastando i territori delle possibili scelte li trova tutti minati. "Agire, non agire, tentare il destino?" la decisione esige troppo da chi è al potere ed evidenzia la debolezza di Pelasgo, re non solo di Argo ma di uno sterminato territorio limitato solo dalla lingua di mare. Mette dunque in evidenza le difficoltà di un potere monarchico che non può decidere da solo sulle sorti di un'intera popolazione. Il re prova a rintracciare una causa legittima per giustificare una sua possibile scelta, ma quando chiede se il rifiuto matrimoniale nascesse da ostilità o se la legge lo vietasse le supplici non danno una risposta concreta ma ripetono con ostinazione di essere disposte a fuggire sino alle stelle pur di non accettare il vincolo coniugale. Sicuramente il coro delle supplici destruttura il prototipo di donna del V secolo a.C -forse non troppo diverso da quello odierno- quale protettrice dell’ οἶκος, figura centrale dell’educazione della prole e della vita della casa. Il temperamento risoluto delle donne è stato dunque, ed è ancora ora, motivo di riflessione: insistono sul diritto garantito dal loro stato di supplici, criticano la debolezza del re nel non saper decidere ed imporre la sua volontà, augurano la morte ai cugini che accusano ripetutamente di tracotanza, minacciano la collera degli dei contro chi non è pietoso verso di loro e addirittura oppongono, quasi blasfeme, a zeus ἱκέσιος il dio degli inferi, qualora questo non le proteggesse. Rinnegano dunque con tutta la loro forza, e con tutti gli espedienti possibili, il matrimonio e sovvertono in questo modo l’ordine naturale delle cose, animate dalla volontà di affermazione della propria individualità. Come giustificare questa estrema sfrontatezza femminile in un clima culturale come quello dell’Atene del V secolo? Si può parlare di rivalsa della figura muliebre? Purtroppo, o per fortuna, non c’è risposta certa a queste domande, cosicchè ognuno è spinto ad una sua riflessione personale –fine auspicato da ogni tragediografo greco-.
Il contrasto tra norme divine e finalità terrene, tra morale e politica viene risolto nella condivisione della responsabilità di scelta tra i membri dell'assemblea popolare. Si può scorgere in Eschilo un precursore della monarchia costituzionale in cui la funzione legislativa è esercitata collettivamente dal sovrano e dal parlamento. Ma perché il popolo sceglie di aiutare le supplici? Sceglie il male minore -e dunque la guerra ad armi pari contro gli uomini rispetto ad una ad armi impari contro gli dei- oppure sono mossi da quel senso di ospitalità che tanto contraddistingue la cultura greca? In realtà per rispondere alla domanda dobbiamo rifarci al valore del supplice nella tragedia: Esso è detentore di quelle qualità come la dike e l'eusebeia che si rifanno al paradigma comportamentale ed etico greco. Il greco (Pelasgo prima, e il pubblico poi) venendo in soccorso del supplice riconosce nell'altro se stesso e afferma i suoi valori tramite quest'ultimo. Lo snodo cruciale dell'accettazione dell'altro dunque, sta nel volere vedere a tutti i costi nell'altro i segni della nostra impalcatura morale e sociale. Vengono infatti, assimilati ad aggettivi dispregiativi quelli usati da Eschilo nella descrizione delle Danaidi, quali "pelle scura", "modo di parlare straniero". Quasi come se i greci, e un po' tutti gli occidentali oggi, detenessero la verità assoluta, il giusto dalla loro parte. Perché infatti collegare “scuro”,” barbaro” a "cattivo"? Questo infelice binomio è causa di molte discriminazioni ancora oggi, ed è talmente radicato che forse anche la metà considerata in difetto fa in modo di abbreviare lo iato tra le due culture. In che ottica si spiegherebbe altrimenti l’appello delle Danaidi ai valori condivisi e all' antica discendenza che li accomunerebbe? Si cerca dunque, ora con il legame familiare, ora con quello etico, di facilitare l'accettazione dello straniero. Se la decisione in Eschilo è presa da ogni singolo partecipante all’assemblea, oggi il diritto d’asilo e le pari opportunità sono garantite dallo stato a chiunque le richiedesse per validi motivi legali e/o umanitari. La scelta oggi è già stata presa, dunque, ma nel piccolo della nostra quotidianità tutti siamo chiamati a far parte di quell’assemblea argiva, a dover scegliere se aiutare lo straniero e aprire i nostri orizzonti o chiuderci in noi stessi, barricati nelle nostre certezze. Il dialogo con realtà diverse crea infatti disagio in chi non è abituato a mettersi in discussione, ad arricchirsi di esperienze. Se per i greci l’accoglienza delle supplici era conseguita dalla piena introduzione in società delle donne in qualità di meteci, oggi cosa significa per noi accoglienza? Nella maggior parte dei casi l’esodo dei migranti suscita nelle popolazioni accoglienti senso di precarietà poiché si destabilizza un assodato sistema sociale ed economico fino ad allora dato. Non è certo caratteristica esclusiva del XXI secolo il flusso migratorio che coinvolge vaste parti del nostro mondo. Se guardassimo la storia mondiale da una carta geografica interattiva vedremmo una confusione di uomini colorati che camminando sulla superficie del globo da città in città, da nazione a nazione disegnano percorsi di volta in volta nuovi con a capo fila la speranza di trovare maggiore benessere di quello che si ha. Diversi sono i motivi che spingono una popolazione a ricercare la fortuna in altri luoghi da quelli nativi, senza dubbio il principale è quello di scampare ad una morte certa nei luoghi poveri e bellicosi, vedi oggi sud Africa o Palestina. Altri invece emigrano alla ricerca di migliori situazioni economiche e politiche. La storia quindi insegna che nessuno può vantarsi di non essere mai stato vinto dalle necessità e che siamo tutti in balia di equilibri fragili. Se la terra è stata creata senza muri perché allora ci arroghiamo il diritto di crearli noi con il nostro egoismo? La verità è che siamo tutti colpiti da una cecità che non ci permette di capire che siamo tutti naufraghi in un mare che non risparmia nessuno, supplici agli altari della vita.
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